ITINERARI

Lo sci a Campo Felice

Campo Felice è una stazione sciistica in provincia dell’Aquila in Abruzzo, sull’Appenino centrale nella catena del Velino-Sirente e all’interno del Parco Naturale omonimo.

Data la sua vicinanza a Roma (110 km circa) è un centro molto apprezzato. Insieme a Campo Imperatore, Ovindoli e Monte Magnola fa parte del comprensorio delle Tre Nevi con cime alte più di 2000 metri. Campo Felice dispone di 35 km di tracciati immersi nella natura.

Per lo sci e lo snowboard sono disponibili 30,9 km di piste e 5,6 km di skiroute15 impianti trasportano gli sciatori. Il comprensorio di sport invernali si trova ad un'altitudine tra i 1.411 e i 1.916 m.

Curiosità: i suoi 380 cannoni per l’innevamento aritificiale hanno un fabbisogno idrico di oltre 82 milioni di litri, assicurato completamente da un bacino naturale posto alla base di una seggiovia, la Cisterna appunto, a 1700 metri di quota.

Chicca: dalla cima del Monte Rotondo si può ammirare lo straodinario massiccio del Gran Sasso, il Sirente, il Velino, la Maiella e la Duchessa; un panorama davvero unico e meraviglioso.

Destinazione per tutta la famiglia. Campo Felice comprende intere zone dedicate ai più piccoli, fra cui Monovia Baby e tappeto Scuola Brecciara, per imparare a sciare senza essere disturbati. 

Divertimento puro, invece, nella Fun Kids Area, all’interno del parco dedicato allo Snow Tubing. L’area, che si trova all’altezza della pista Campo Scuola, è servita da un tappeto lungo circa 90 metri dove poter salire per poi scivolare liberamente sulla neve. 

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La cascata delle Marmore

La cascata delle Marmore è la più alta cascata artificiale d'Europa e tra le più alte del mondo, potendo contare su un dislivello complessivo di 165 m suddiviso in tre salti. a flusso controllato, è formata dal Velino e dal Nera, affluenti del Tevere, si trova a Terni nella regione Umbria (a circa 7 km dal centro cittadino), quasi allo sbocco della Valnerina. Fa parte del parco fluviale del Nera.
Il nome deriva dai sali di carbonato di calcio presenti sulle rocce e simili a marmo bianco.

Nei pressi della frazione di Marmore, il Velino defluisce dal lago di Piediluco e si tuffa nella sottostante gola del Nera formando le cascate.

L'acqua della cascata delle Marmore è utilizzata per la produzione di energia idroelettrica. Normalmente solo una parte dell'acqua del fiume Velino (portata media 50 m³/s) viene deviata verso la cascata (circa il 30%, equivalenti a circa 15 m³/s). La cascata non è dunque sempre aperta a pieno regime. Quando è aperta a flusso minimo, la cascata scopre le rocce e la vegetazione sottostante.
Un segnale acustico avvisa dell'apertura delle paratoie di regolazione, e in pochi minuti la portata aumenta fino a donarle l'aspetto conosciuto. L'accesso al parco è possibile dal basso (belvedere inferiore) e dall'alto (belvedere superiore) con pagamento di un biglietto. Diversi sentieri percorrono il parco ed è possibile andare a piedi tra i due belvedere, sia in salita che in discesa.

Di notte la cascata è sempre illuminata da un evoluto impianto a led di ultima generazione, che garantisce un fascio di luce e un'illuminazione uniforme.

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Storia


Il fiume Velino percorre gran parte dell'altopiano che circonda Rieti (conca velina o reatina), trasportando sedimenti più a valle ha formato naturalmente una barriera, per deposito chimico fisico dell'acqua; questa particolare configurazione geologica ha contribuito, nel corso delle ere geologiche, alla formazione del dislivello tra conca ternana e conca reatina, che erano alla stessa quota, favorendo la formazione del lago Velino noto come Lacus Velinus. Nel 271 a.C., il console romano Manio Curio Dentato ordinò la costruzione di un canale (il Cavo Curiano) per far defluire le acque stagnanti in direzione del salto naturale di Marmore: da lì, l'acqua precipitava direttamente nel fiume Nera, affluente del Tevere.

Tuttavia, la soluzione di questo problema ne creava un altro: in concomitanza delle piene del Velino, l'enorme quantità d'acqua trasportata dal Nera minacciava direttamente il centro abitato di Terni. Questo fu motivo di contenzioso tra le due città, tanto che nel 54 a.C. fu imbastita una causa di fronte al console Appio Claudio Pulcro e a dieci legati, e Cicerone venne chiamato dai Reatini a perorare la loro causa.[5]

Con la caduta dell'Impero romano d'Occidente ebbe fine la manutenzione del canale, il che portò a una diminuzione del deflusso delle acque e a un progressivo impaludamento della Piana Reatina. Dopo varie peripezie, nel 1422 un nuovo canale venne costruito per ripristinare l'originaria portata del fiume (Cavo Reatino o Cavo Gregoriano, per via dell'intervento di Gregorio XII).

Papa Paolo III, nel 1545, diede mandato ad Antonio da Sangallo il Giovane di aprire un altro canale, la Cava Paolina, che però riuscì ad assolvere il proprio compito solo per 50 anni. Si pensò allora di ampliare la Cava Curiana e di costruire un ponte regolatore, una sorta di valvola che avrebbe permesso di regolare il deflusso delle acque. Quest'opera fu inaugurata nel 1598 da Papa Clemente VIII, che aveva affidato l'incarico progettuale a Giovanni Fontana, fratello di Domenico; il canale prese il nome di Cava Clementina.

Nei due secoli seguenti, l'opera creò non pochi problemi alla piana sottostante, ostacolando il corretto deflusso del Nera e provocando l'allagamento delle campagne circostanti. Per ordine di Papa Pio VI, nel 1787, l'architetto Andrea Vici operò direttamente sui balzi della cascata, dandole l'aspetto attuale e risolvendo finalmente la maggior parte dei problemi.

Nel XIX secolo le acque della cascata cominciarono a essere utilizzate per la loro forza motrice: nel 1896, le neonate Acciaierie di Terni alimentavano i loro meccanismi sfruttando 2 m³ d'acqua del Cavo Curiano. Negli anni successivi, la cascata cominciò a essere sfruttata intensamente per la produzione di energia idroelettrica.[6]

Una vista panoramica della cascata si può ammirare dal borgo medievale di Torreorsina, unico paese della Valnerina che si affaccia direttamente su di essa. Fra il 1901 e il 1960 tale località era raggiungibile mediante la tranvia Terni-Ferentillo, un'infrastruttura nata per agevolare il trasporto delle merci e delle persone lungo la valle della Nera che risultò determinante ai tempi dell'industrializzazione della stessa[7].

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Flora e Fauna


La flora e la fauna in corrispondenza delle cascate è tipica della macchia mediterranea.
La cascata si contraddistingue per la straordinaria ricchezza biologica. Numerosi sono i vegetali che appartengono sia a forme primitive (alghe azzurre e verdi, muschiepatiche e licheni), sia a organismi evoluti come i macromiceti; le piante vascolari acquatiche e quelle terrestri (felci e piante con fiori).
A queste presenze botaniche vanno aggiunte le numerose specie zoologiche appartenenti a insettianfibipescirettiliuccelli e piccoli mammiferi.
L'importanza di questa biodiversità è testimoniata dal fatto che l'area del parco della Cascata delle Marmore è stata riconosciuta a livello europeo come SIC (SIC) e Zona di protezione speciale (ZPS) della Rete Ecologica Europea Natura 2000.
 Sono presenti specie di uccelli rari o addirittura unici in Italia. Alcuni esempi: Il Merlo acquaiolo e la Ballerina gialla che si alimentano lungo le sponde e nel letto del Nera; il variopinto Martin pescatore che si può osservare durante le migrazioni invernali; la Rondine montana e il Passero solitario che nidificano nelle nude pareti rocciose e la Ballerina bianca che costruisce il nido di fango sotto i tetti delle case prossime alla cascata; l'Usignolo che abita la vegetazione igrofila; la Gallinella d'acqua e il Germano reale.[1][3]

La cascata delle Marmore è inserita nella rete dei Centri di Educazione Ambientale (CEA) della Regione Umbria.

TASSO


Turismo


GROTTE

L'acqua, con il passare dei secoli, ha scavato grotte con stalattiti e stalagmiti nel travertino. Alcune grotte sono visitabili e rappresentano un aspetto ancora poco conosciuto della cascata delle Marmore.

PARCO DELLA CASCATA

L'area della Cascata delle Marmore è attrezzata con sentieri di visita, Centro di Educazione Ambientale e servizi. È possibile svolgere visite guidate e attività all'aperto gestite da personale qualificato. L'accesso all'area è a pagamento e l'apertura del Parco avviene a orari variabili a seconda della stagione[4].

ACCESSIBILITA'

Il belvedere inferiore si trova lungo la strada statale 209 Valnerina ed è collegato alla viabilità autostradale dallo svincolo "Valnerina" della superstrada Rieti-Terni. È servito da una fermata autobus dove transitano varie autolinee che lo collegano alla stazione ferroviaria di Terni: la linea urbana diretta 7/ Terni-Cascata, la linea urbana 7 Terni-Torre Orsina, e la linea extraurbana 621 diretta ad ArroneFerentillo, Montefranco, Scheggino.

Il belvedere superiore è invece raggiungibile tramite lo svincolo "Marmore" della superstrada Rieti-Terni; è servito da trasporto pubblico con la piccola stazione di Marmore, posta lungo la ferrovia secondaria Terni-L'Aquila, e con una fermata degli autobus dove transita la linea extraurbana 624 Terni-Colli sul Velino.

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Il Gran Sasso

Il Gran Sasso d'Italia (o semplicemente Gran Sasso) è il massiccio montuoso più alto degli Appennini e dell'Italia peninsulare, situato interamente in Abruzzo, nella dorsale più orientale dell'Appennino abruzzese, al confine fra le province dell'Aquila, di Teramo e di Pescara.

Composto da diversi e adiacenti gruppi montuosi e compreso tra i Monti della Laga a nord-ovest (da questi separato dall'alta Valle del Vomano e la Strada statale 80 del Gran Sasso d'Italia che l'attraversa), il teramano a nord-est, la piana di Assergi e la Conca Aquilana a sud-ovest, la Piana di Navelli e la Valle del Tirino a sud, le gole di Popoli a sud-est, è un'area ambientale tutelata con l'istituzione del parco nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga e su di esso ricadevano la comunità montana Gran Sasso e la comunità montana Campo Imperatore-Piana di Navelli.

Dal punto di vista geologico è un massiccio di origine sedimentaria costituito da calcaridolomia, generalmente compatti, e marne.

Originatosi circa 6 milioni di anni fa (Miocene), nel contesto dell'emersione degli Appennini, subì successivamente fasi di spinta e compressione che generarono una serie di fratture e di abbassamenti (Val Charino, Valle del Venacquaro, Val Maone, Campo PericoliCampo Imperatore).

Su queste, a partire da 600.000 (Günz) fino a circa 10.000 (Würm) anni fa, agirono le forze erosive delle glaciazioni. Queste ultime hanno lasciato segni particolarmente evidenti, soprattutto sul versante settentrionale del gruppo: piccoli circhi glaciali caratteristici sono individuabili, ad esempio, nella zona del Monte San Franco (valli dell'Inferno e del Paradiso), ma anche in prossimità del Monte Aquila e del Monte Scindarella.

ghiacciai più grandi rappresentavano punti di convergenza naturali di questi circhi glaciali posti più in alto; ad esempio, il ghiacciaio che occupava Campo Pericoli si alimentava dai circhi posti a nord delle creste del Corno Grande, del Monte Aquila, del Monte Portella e del Pizzo Cefalone. In queste conche la neve si compattava e si trasformava in ghiaccio, che confluiva nella Valle del Venacquaro e in Val Maone verso Pietracamela, dove sono visibili ancora oggi resti morenici risalenti alla glaciazione del Riss.

Poiché le glaciazioni successive hanno cancellato i segni lasciati da quelle precedenti, e poiché la glaciazione del Riss è antecedente a quella del Würm, questa morena rissiana è una delle rare prove del fatto che le valli del Gran Sasso sono state occupate dai ghiacciai più e più volte nel corso del Neozoico.

Il 22 agosto 2006 nella parete nord-est (il paretone) del Corno Grande, a causa di normali processi erosivi, si è verificata una frana di grandi dimensioni (da 20.000 a 30.000 m³ di roccia si sono distaccati dal quarto pilastro), senza conseguenze sull'incolumità pubblica. Il 23 agosto 2016 a causa del sisma che ha colpito AmatriceAccumoliArquata del Tronto e altri paesi dell'Appennino Centrale è franato un pezzo del Corno Piccolo.

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La montagna


TERRITORIO

Dai suoi punti più distanti, ovvero il Passo delle Capannelle a nord-ovest e le gole di Popoli a sud-est, il massiccio misura circa 50 km in lunghezza e 15 km in larghezza con un perimetro di circa 130 km; orientato da nord-ovest e a ovest a sud-est, come la grande maggioranza dei gruppi montuosi appenninici e preappenninici, ma con caratteristiche ben più aspre di alta montagna, fa parte della dorsale più orientale dell'Appennino abruzzese assieme alla Maiella più a sud e consta di due sottocatene principali parallele in senso longitudinale: la prima, più orientale e più aspra, si estende dal Monte Corvo (2.623 m; nord-ovest) al Vado di Sole (1540 m; sud-est).
La sottocatena occidentale, meno elevata e aspra, si estende invece dal Passo delle Capannelle e dal Monte San Franco (2.132 m; nord-ovest) al Monte Capo di Serre (1.771 m; sud-est); al di là di questa zona centrale vi è un'ampia zona sud-orientale, chiamata dei "contrafforti occidentali"; questi sono caratterizzati da numerosi rilievi meno elevati: Monte Ruzza (1.643 m), Monte Bolza (1.904 m), Monte Camarda (1.384 m), Monte Cappucciata (1.802 m), Monte Picca (1.405 m) e molti altri, fino alle gole di Popoli. Le cime maggiori si trovano nella sottocatena settentrionale: il Corno Grande (che consta di quattro vette principali, quella Orientale (2.903 m), la Centrale (2.893 m) il Torrione cambi (2.875 m) e la maggiore, quella Occidentale (2.912 m, che è anche la vetta più alta di tutti gli Appennini) e il Corno Piccolo (2.655 m); incastonato dentro una conca e protetto dalle quattro vette che costituiscono il Corno Grande si trova il Ghiacciaio del Calderone, il secondo ghiacciaio più meridionale d'Europa.

GEOMORFOLOGIA

Alternativamente il massiccio può essere suddiviso in tre grandi aree latitudinali: la parte settentrionale dal Passo delle Capannelle al Monte Portella che raggruppa le cime maggiori, la parte centrale corrispondente all'altopiano di Campo Imperatore con le sue cime e la parte meridionale che degrada dolcemente da Campo Imperatore fino alla Valle del Tirino e all'Altopiano di Navelli con i suoi borghi montani; nel cuore del massiccio, tra le due sottocatene, è presente il vasto altopiano di Campo Imperatore e tra le cime maggiori la conca di Campo Pericoli, oltre che profonde valli che ridiscendono tra le suddette cime (Vallone delle CornacchieValle dell'InfernoVal MaoneValle del Rio ArnoValle del VenacquaroValle del ParadisoVal Chiarino); da un punto di vista geomorfologico, il massiccio presenta scenari paesaggistici abbastanza diversi e unici nei due versanti: quello occidentale aquilano scosceso, ma prevalentemente erboso, e quello orientale teramano a maggior dislivello più aspro e roccioso.
Complessivamente l'altitudine, la composizione delle rocce, il tipo di erosione a cui è stato soggetto, fanno del Gran Sasso la montagna appenninica più simile ai gruppi alpini dolomitici; data la sua elevazione, che la differenzia dalle altre catene appenniniche, il massiccio è ben visibile da tutti i principali gruppi montuosi dell'Appennino centrale e oltre, dal Monte Conero al Gargano e anche, nelle giornate particolarmente limpide, dai massicci montuosi della Dalmazia (Alpi Dinariche).

IDROGRAFIA

Le Cascate del Vitello d'Oro, situate nel territorio del comune di Farindola, sono considerate le cascate più spettacolari del massiccio del Gran Sasso d'Italia, con un salto di circa 28 m. Altre importanti cascate sono la cascata di Bisenti con un salto di circa 70 m e le Cascate del Ruzzo entrambe nel territorio del comune di Isola del Gran Sasso.

Il massiccio ospita il Ghiacciaio del Calderone, posto sul versante settentrionale del Corno Grande, tradizionalmente considerato il ghiacciaio più meridionale d'Europa; in tutta l'area sono inoltre presenti anche alcuni glacio nevati e nevai: i più importanti si trovano alle pendici del Corno Piccolo, sotto uno sperone roccioso a metà strada tra il Rifugio Franchetti e la Sella dei Due Corni, noto come glacionevato Franchetti; sul Monte Infornace in un canalone fino alle vicinanze della vetta, innevato solitamente tutto l'anno, è presente invece il Nevaio di Fonte Rionne; nei pressi del Monte Camicia sono presenti due nevai perenni uno dei quali a circa 1150 m noto come Nevaio del Fondo della Salsa. Numerose, d'inverno, sono le cascate di ghiaccio, alcune delle quali si trovano alla base del Monte Camicia, sempre nella zona del Fondo della Salsa, mentre altre cascate importanti sono Ghiaccio del Sud e la Cascata del peccato.


FLORA E FAUNA

In particolare, l'essenza maggiormente penalizzata fu proprio l'abete bianco, caratteristico di queste zone in quanto furono aree rifugio della specie durante le glaciazioni; oggi questa meravigliosa conifera vegeta soltanto nei pressi dell'Eremo di Santa Colomba, Selva degli Abeti, Incodaro, Campiglione, Nerito.
Per parlare della flora del Gran Sasso, bisogna distinguere, anche in quest'ambito, fra i due versanti, quello teramano e quello aquilano. Il primo, esposto a nord-est, è caratterizzato da un substrato argilloso ed è soggetto a maggiori precipitazioni; questi fattori favoriscono l'egemonia del faggio, con lo sviluppo di faggete di notevole pregio. Il versante meridionale, al contrario, possiede un substrato calcareo ed un clima continentale. Questi fattori favoriscono principalmente lo sviluppo di boschetti di pioppi, di carpini e di cerri. Sono presenti, nell'areale, il nocciolo, il castagno (su suoli subacidi e acidi), l'acero (spesso presente con esemplari mastodontici), tigli, Olmo montano e il Frassino maggiore. Sui versanti più soleggiati si può trovare il sorbo montano e il ciliegio selvatico.
Sporadica è la presenza della betulla bianca relitto di epoca glaciale. Solo grazie a rimboschimenti sono presenti il pino nero, Pino silvestre, l’Abete di Douglas, l'abete rosso, e il larice. L'introduzione di quest'ultima specie si è rilevata utile poiché ben si adatta alle condizioni ambientali severe del luogo tanto da svolgere funzione pioniera per l’espansione del bosco ad alta quota. A Fonte Vetica e Valico di Capo la Serra, l’abete rosso è stato reintrodotto a partire dal 1901 dopo la sua scomparsa in epoca romana a insieme al larice e all’abete bianco. Anche questa specie si è rinaturalizzata favorendo l’espansione del bosco in ambienti difficili per il Faggio.
Tra gli arbusti possono essere menzionati il ginepro, il mirtillo (commestibile), la belladonna (di aspetto simile al mirtillo, ma velenoso e, talvolta, addirittura mortale), l'agrifoglio. Le fioriture sono caratterizzate da gigli (specie protetta da una Legge Regionale dell'Abruzzo), campanule, sassifraghe, primulegenziane, garofanini e numerose orchidee. Menzione a parte merita la stella alpina appenninica, una pianta rarissima sulle montagne dell'Appennino.

L'esponente più imponente della fauna del Gran Sasso è l'orso marsicano, una sottospecie endemica dell'Appennino, di taglia relativamente ridotta, che fino a qualche anno fa sembrava scomparsa ma che recentemente è stata monitorata nelle sporadiche incursioni nei territori del parco nazionale.
Presenti anche esemplari di lupo appenninico e di volpe.
Altri comuni mammiferi che vivono nel territorio sono: il gatto selvatico, il cinghiale, il cervo ed il capriolo. Il camoscio appenninico si era estinto sul Gran Sasso (per l'eccessiva caccia) intorno al 1890, ma è stato reintrodotto nel 1992, ed ora forma una colonia stabile composta da oltre 1.000 esemplari[10].
Fra i rapaci meritano menzione l'aquila reale, il falco, il grifone la poiana comune e lo sparviero. Spicca, fra gli altri uccelli, la presenza del gracchio alpino e del picchio. Fra i rettili va segnalata la vipera dell'Orsini, anch'essa endemica, di dimensioni inferiori rispetto alla vipera comune e caratterizzata da velenosità meno letale e pressoché innocua, vista la rarità degli avvistamenti di tale specie. Staziona nelle pietraie, vicino ai corsi d'acqua e nelle zone di bassi cespugli di ginepro evitando, ove possibile, il contatto con l'uomo.

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Storia


Chiamato dagli antichi Romani Fiscellus Mons (Monte Ombelico) per la sua posizione centrale nella penisola italiana (CatonePlinioSilio Italico), questo massiccio montuoso era denominato nel Medioevo Monte Corno, dizione che serviva ad indicare sia il Corno Grande sia, per estensione, l'intera catena.
Secondo il celebre geografo Roberto Almagià, la denominazione "Gran Sasso" è molto tarda e risalirebbe addirittura al Rinascimento. Per questo autore, il primo abbozzo del toponimo è da ricercarsi in un poemetto del 1636 scritto da Francesco Zucchi di Montereale, in cui si fa riferimento al massiccio come al «Sasso d'Italia». Il primo documento in cui entrambe le denominazioni compaiono senza possibilità di equivoco è la "Carta topografica del Contado e della diocesi dell'Aquila" (seconda metà del XVIII secolo), nella frase: «Monte Corno overo Gran Sasso d'Italia». A dare conferma alle parole dell'Almagià sembra essere la consuetudine delle popolazioni locali che, ancora oggi, nei paesi che circondano la montagna, fanno riferimento al massiccio utilizzando il toponimo "Monte Corno".
Fin dall'antichità, le popolazioni pedemontane frequentavano la montagna e avevano familiarità con i sentieri che permettevano di salirvi, sfruttandola in prevalenza per la caccia, il pascolo, l'uso civico di legnatico da parte di contadini, boscaioli e carbonai, nonché per la raccolta di neve e ghiaccio, che veniva rivenduto nelle città per conservare gli alimenti.

Il massiccio del Gran Sasso risulta popolato da almeno 100.000 anni: frammenti del femore di un uomo di Neandertal di circa 14 anni di età, vissuto 80.000 anni fa durante il Paleolitico, sono stati trovati nella zona di Calascio, in alcune anguste cavità rocciose, chiamate "Grottoni", a quota 670 m s.l.m. (si tratta dei resti del più antico Neandertal ritrovato in Abruzzo). Negli anfratti rocciosi c'erano anche schegge ossee di molti differenti animali, il che fa supporre che le specie cacciate fossero numerose: il lupo, il leopardo, il cavallo, la iena delle caverne, e finanche i topi e le lucertole, mentre tra gli ungulati, prede privilegiate erano il cervo, il camoscio, il capriolo ed il bue ancestrale. Frammenti di carbone e scaglie di selce hanno consentito di ricostruire le abitudini di questi Neandertal; essi macellavano le prede nelle grotte e le consumavano crude o le arrostivano su fuochi di legno di ginepro e di abete; ricavavano le punte delle lance dalle rocce del Monte Scarafano e del Monte Bolza.

Reperti ritrovati a Campo Pericoli attestano che, in Età del bronzo, i cacciatori preistorici attraversavano il territorio da Campo Imperatore a Campo Pericoli attraverso i valichi della Portella e della Sella dei Due Corni. In quest'epoca (XIII-XI secolo a.C.) vi era certamente un insediamento di cacciatori-raccoglitori nella zona di Rocca Calascio, come dimostrano resti di ceramiche rinvenuti in loco ed una punta di freccia, in bronzo, con due fori, considerata, ancora in anni recenti (2000), unica in Italia. Scavi effettuati nella Grotta a Male[4], a 2 km da Assergi, confermano la permanenza stanziale dell'uomo in quest'area nell'Eneolitico e nell'Età del Ferro.

I numerosi passi che mettono in comunicazione il versante teramano con quello aquilano favorirono, fin dalla preistoria, un intenso scambio commerciale fra l'economia prevalentemente agricola del versante settentrionale e quella basata sulla pastorizia del versante meridionale. In epoca storica, vi sono testimonianze di un intenso sfruttamento di Campo Imperatore come pascolo. Dopo la ricompattazione del Sud Italia operata dai Normanni, in questa zona vennero aperti numerosi tratturi[5], cioè vie di transito per la transumanza delle bestie, utilizzati dai pastori per condurre le mandrie ai pascoli del Tavoliere delle Puglie prima dell'arrivo dei rigidi mesi invernali.
Un altro, interessante, commercio che è stato presente nel territorio, e di cui si ha certezza che fosse già praticato nel XVI secolo, è lo sfruttamento della neve. Questa, ricavata da nevai presenti in quota, veniva stoccata in pozzi profondi anche 20 metri ed utilizzata d'estate per la produzione di sorbetti e per usi medicali. Il commercio della neve era regolamentato dai comuni, che stabilivano apposite tariffe per le concessioni demaniali, e che stilavano anche tabelle di valutazione del prodotto. La neve, principalmente, veniva distinta in "nera", il che significava che era stata raccolta nei dintorni dei paesi, quindi senza garanzia di purezza; e in "candida", denominazione che indicava la provenienza dalle zone di alta montagna. Questo tipo di attività commerciale è perdurato fino agli inizi del Novecento.

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Il Terminillo

Il Terminillo (2217 m s.l.m.) è un massiccio montuoso dell'Italia centrale che fa parte del gruppo montuoso appenninico dei Monti Reatini, posto nel Lazio a circa 32 km da Rieti e amministrativamente ricadente interamente nella Provincia di Rieti.

Noto anticamente come Monte Gurgure e Mons Tetricus, è uno dei simboli più noti della Sabina, presenza paesaggistica costante lungo la via consolare Salaria, la cosiddetta Via del Sale. La catena montuosa ha notevole valore per la sua biodiversità rappresentata da habitat, specie animali e vegetali di interesse comunitario.

Il Terminillo è molto conosciuto per la stazione sciistica, frequentata soprattutto dagli abitanti della Capitale, in ragione di cui esso è anche chiamato la montagna di Roma, e dagli abitanti delle zone limitrofe, in particolare TerniPerugia e Viterbo: dal punto di vista sportivo, oltre alle attività invernali che ospita, fin dagli anni trenta del XX secolo è saltuariamente utilizzato come traguardo delle tappe ciclistiche di montagna del Giro d'Italia ed altre manifestazioni.

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La montagna


TERRITORIO

Confina a nord con l'altopiano di Leonessa, a est con le strette gole del Velino, a sud con la valle del fiume Velino, e a ovest con la vasta e pianeggiante Piana Reatina. I principali versanti per accedere alla montagna sono quello sud-occidentale che affaccia su Rieti, quello settentrionale che guarda verso Leonessa, e quello orientale verso Micigliano. Il versante meridionale è molto più antropizzato e sfruttato a livello turistico, ed è posto a grande dislivello rispetto al fondovalle. Il versante settentrionale o leonessano è posto a minor dislivello, ma è più aspro, selvaggio e integro, con presenza di rupi rocciose, circhi glacialibrecciai e valli incontaminate (Vallonina e Valle Scura), ed è quello che ricorda maggiormente le cime alpine e dolomitiche.

Dalla Sella di Leonessa (il punto di unione stradale tra i due versanti) è possibile ammirare l'imponente massiccio roccioso alto oltre 2000 metri, posto a poche centinaia di metri di distanza. Il Monte Terminillo propriamente detto ricade su quattro comuni: RietiCantaliceLeonessa e Micigliano; l'intero massiccio include anche i comuni di Borgo VelinoCastel Sant'AngeloCittaducaleMorro ReatinoPoggio BustonePosta e Rivodutri. Le principali località turistiche sono Pian de' Valli, appartenente al comune di Rieti, Campoforogna e Rialto Terminillo, appartenenti al comune di Micigliano e Campo Stella nel comune di Leonessa.

GEOMORFOLOGIA

Dal punto di vista geologico e geomorfologico si tratta di un massiccio calcareo abbastanza vasto (perimetro di quasi 70 km), quasi distaccato e isolato dagli altri gruppi montuosi dell'Appennino centrale, tipicamente appenninico quanto a geomorfologia (mai troppo aspra, ma comunque articolata) e quanto a flora e fauna presenti. Da esso diparte la dorsale più occidentale dell'Appennino centrale che si innesta a sud-est ai vicini monti del Cicolano, poi a seguire i Monti Carseolani e i Monti Simbruini e così via procedendo verso sud est lungo lo spartiacque appenninico primario, oppure innestandosi sulla dorsale centrale dell'Appennino Centrale con il gruppo montuoso del Monte Nuria, le Montagne della Duchessa e il Velino-Sirente.
Su ogni versante è segnato da ampie e profonde vallate che ne determinano i confini orografici e lo separano da altri piccoli gruppi montuosi minori che lo circondano (i Monti di Cantalice, Poggio Bustone, Rivodutri e Morro Reatino). Tra queste valli spiccano per interesse naturalistico la Vallonina che scende verso Leonessa dall'omonima Sella di Leonessa, le valli Ravara e di Capo Scura che scendono invece verso il corso del fiume Velino e l'antica consolare Salaria. Sul versante opposto sono invece le Valli dell'Inferno e degli Angeli che scendono verso la piana reatina e i monti di Cantalice.

OROGRAFIA

Il massiccio consta di 6 cime che superano i 2000 metri (la cima del Terminillo, la Cresta Sassetelli (2.139 m), Monte Terminilletto (2.104 m), il Monte Elefante (2.017 m), Monte di Cambio (2.081 m), il Monte Valloni (2.004 m) ed altre numerose a quote inferiori.

IDROGRAFIA

Il massiccio non presenta sorgenti fluviali significative. Diversi sono però i ruscelli che si formano nelle stagioni intermedie (autunno e primavera) nelle valli impervie del massiccio in concomitanza con le stagioni più piovose o con lo scioglimento delle nevi. La natura carsica del terreno e del sottosuolo fa sì che l'acqua filtri più facilmente in profondità fino alle falde acquifere alimentando, assieme agli altri rilievi dei Monti Reatini, le sorgenti del Peschiera poste più a valle. L'intero gruppo fa comunque parte del bacino idrografico del fiume Velino.

CLIMA

Il clima del territorio è quello tipico delle zone appenniniche di media e alta montagna. Buoni e duraturi sono gli accumuli di neve d'inverno, specie nel versante settentrionale, fresco e ventilato d'estate. Sul versante nord-est gli accumuli di neve persistono fino a maggio-giugno: per questa ragione è in progetto il collegamento sciistico del versante reatino con quello leonessano, per potenziare il turismo sportivo invernale.

FLORA E FAUNA

Fino a quote di media montagna (1600–1800 m) è ricoperto da boschi su tutti i versanti, principalmente faggete. Sono presenti anche abeti e larici per opere di rimboschimento. Il versante nord-est è più aspro e roccioso (Rialto, Cinque Confini, Sella di Leonessa) e coincide con una antropizzazione molto minore rispetto alla località Pian de' Valli. La fauna è sostanzialmente quella tipica dell'Appennino con presenza di cinghialivolpilupi, ma non è raro incontrare anche lepriscoiattoliistrici e rapaci vari. Sono presenti piccole mandrie di equini e bovini al pascolo, specie nella stagione estiva.

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Storia


Il monte Terminillo era ben conosciuto già nell'antichitàVirgilio lo citò nell'Eneide parlando delle sue «tetricae horrentes rupes» (spaventose rupi di Tetrico); Marco Terenzio Varrone descrisse i «gurgures alti montes» (alti monti Gurguri) e l'usanza di condurvi il bestiame per il pascolo. 
All'inizio del Settecento, Loreto Mattei riferisce che il nome dialettale della montagna era monte Urulu, probabile deformazione del latino Gurgures Nelle carte geografiche dello Stato Pontificio era indicato con il toponimo di monte Gurgure.Solo all'inizio dell'Ottocento si iniziò ad affermare sugli atlanti il toponimo Terminillo (diffuso fin dal Cinquecento tra gli autoctoni), che deve la sua origine al fatto che la montagna segnasse il confine tra Stato Pontificio e Regno di Napoli e il termine dei rispettivi territori.

Fin dall'antichità, le popolazioni pedemontane frequentavano la montagna e avevano familiarità con i sentieri che permettevano di salirvi, sfruttandola in prevalenza per la caccia, il pascolo, l'uso civico di legnatico da parte di contadini, boscaioli e carbonai, nonché per la raccolta di neve e ghiaccio, che veniva rivenduto nelle città per conservare gli alimenti.

Alcuni ruderi e resti di terrazzamenti a Pian de' Rosce fanno pensare che alcune zone fossero un tempo coltivate; sembra inoltre che gli abitanti dei paesi posti alle estremità opposte della montagna avessero l'abitudine di incontrarsi sul Terminillo per fare mercato (da questo deriverebbe il nome campus forum poi diventato Campoforogna). 

Tuttavia la montagna non era stabilmente abitata e non era sede di insediamenti umani permanenti, fatta eccezione per modesti ricoveri di pastori.

Per lungo tempo, dal medioevo fino al secolo scorso, il massiccio montuoso e gran parte dei paesi pedemontani (esclusi Poggio BustoneRivodutri e Morro Reatino) appartenevano al Regno di Napoli e facevano capo alla provincia dell'Aquila in Abruzzo; al contrario, Rieti faceva parte dello Stato Pontificio, facendo capo alla provincia di Perugia in Umbria. Il confine tra Regno di Napoli e Stato Pontificio passava proprio sul monte Terminillo.[7][8] Solo nel 1927, con l'istituzione della provincia di Rieti, il Terminillo entrò a far parte del Lazio.

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Le grotte Val de Varri

La Grotta di Val de’ Varri, si trova in una vallata tra i fiumi Salto e Turano, nel Comune di Pescorocchiano, vicino al centro abitato di Leofreni.

La valle fa parte di un sistema di bacini le cui acque scompaiono dentro inghiottitoi.

L’inghiottitoio di Val de’ Varri si articola in due rami principali: quello di destra è fossile, mentre quello di sinistra è formato da una galleria superiore e da una inferiore, attualmente attraversata da un torrente, che forma periodicamente all’ingresso della cavità una cascata di un’altezza di circa 20 metri.

Una voragine incassata nel fianco della montagna in cui le acque vengono inghiottite per riaffiorare dopo molti chilometri.

Un viaggio all’interno di uno dei più importanti complessi carsici del centro Italia.

La visita delle grotte viene effettuata sul ramo attivo con un suggestivo sentiero attrezzato e successivamente nell’imponente ramo fossile Van de Steen che si sviluppa parallelamente alla parte attiva.

La cavità rappresenta anche un importante sito archeologico come testimonia la presenza di graffiti neo-eneolitici.

Si possono raggiungere le Grotte di Val de Varri da Roma, da L’Aquila e da Avezzano.
Da Roma (94 km) la via più veloce e facile è prendere la A24 e uscire al casello della Valle del Salto.
Sia da L’Aquila (50,5 km) che da Avezzano (43 km) sarà sempre necessario raggiungere il casello della Valle del Salto.
Da qui dirigersi verso Borgorose. Dal paese si imbocca la SP67 e poi la SP26. Poco prima di arrivare a Pescorocchiano incontrerete un bivio (8,5 km da Borgorose) con cartelli che indicano le Grotte di Val de’ Varri – Nesce (proseguendo sulla SP26 si raggiunge il borgo e Carsoli). Si gira, quindi, a sinistra e si segue la “Strada della Pastoranza”. Poco dopo si incontrerà un altro bivio con altri cartelli turistici per le grotte. Si continua sulla strada e si incontrerà un altro bivio che indica il borgo di Val de’ Varri (ignoratelo e proseguite dritti senza salire a sinistra). Da qui in poi senza possibilità di errore (ignorate anche il successivo bivio a sinistra che si inoltra nelle campagne) arriverete, dopo un lungo tornante, alle grotte (8,5 km da Borgorose – 5,5 km da Pescorocchiano).


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La storia


Un’antica leggenda narra che un pastore mentre si trovava con il proprio gregge sul monte Sant’Angelo, avendo smarrito una pecora, nel cercarla si accorse dell’esistenza di una voragine nel terreno. Di lì a poco ci fu un passaparola tra la popolazione locale, fino a quando non intervenne il Circolo Speleologico Romano (CSR) che nel 1928 vi effettuò un primo sopralluogo con il recupero di materiali ceramici e faunistici. Nel 1946, ricerche più dettagliate furono compiute da A. Segre e A. Guller dell’I.I.P.U. con indagini in alcune zone a focolari dell’area archeologica. Nel 1959 viene scoperto dal CSR il ramo Van Den Steen che esplora la parte attiva fino al sifone terminale. Tra il 1985 e il 1987 vengono scoperti dei rami fossili che vanno oltre il sifone terminale e si raggiunge un grosso salone denominato Giulio Verne.
Le ricerche archeologiche del 1997, vengono avviate nell’ambito di un progetto di valorizzazione turistica della grotta con il coordinamento della Soprintendenza per i beni archeologici del Lazio.
Nel corso dei lavori sono stati messi in luce e raccolti oltre 1000 frammenti ceramici. Le forme comprendono olle, dolii, ciotole carenate, tazze, scodelle e piatti. Le decorazioni, rare, consistono in cordoni plastici con tacche trasversali, incisioni curvilinee concentriche, nastri angolari posti a formare dei rombi, nastri ricurvi campiti da file di punti o da tratteggi trasversali. Le cremiche si collocano in un ambito di media età del bronzo (cultura appenninica). Altri elementi di cultura materiale consistono in un’accetta levigata in pietra verde ed elementi in selce e metallo (un frammento di pugnale, un punteruolo e due braccialetti), oltre ad una fuseruola e un manufatto in osso. La fauna è da attribuire in genere a caprovìdi e suidi, con una predominanza di questi ultimi. Le ricerche hanno messo in luce l’esistenza di veri e propri spazi abitativi con un probabile carattere stagionale di occupazione. Per le comunità pastorali di Val de’ Varri è da ipotizzare un’economia di allevamento e di agricoltura cerealicola poco sviluppata, praticata probabilmente intorno ai villaggi posti lungo le fasce collinari. Le grotte come Val de’ Varri, frequentate stagionalmente in primavera e autunno, costituivano probabilmente riparo temporaneo al centro di zone di pascolo.
Sulle pareti della grotta sono presenti manifestazioni di arte rupestre con motivi come cerchi di punti, linee semicircolari concentriche e spirali, ricorrenti e simili a quelli attestati anche nell’arte rupestre alpina e nelle grotte della penisola iberica.
La presenza di grafiti, realizzati per impressione digitale come manifestazioni di arte rupestre, permette di considerare due fasi distinte di occupazione interna, la prima eventualmente inquadrabile in un tardo Neolitico – inizi Eneolitico legata alle espressioni artistiche coeva a Porto Badisco, la seconda nel Bronzo medio e relativa al materiale archeologico rinvenuto (circa 1500 AC).
Grazie ad alcuni resti rinvenuti all’interno della grotta sappiamo che era abitata già dalla media età del bronzo (2000- 1500 a.C.), questi resti a oggi sono conservati una parte nel museo Pigorini a Roma e una parte nel Museo Archeologico Cicolano a Corvaro.

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I percorsi


IL PERCORSO TURISTICO

La grotta di Val de’ Varri, si trova al di sotto del Monte Sant’Angelo, nel comune di Pescorocchiano. La grotta si divide in due rami, ramo destro e ramo sinistro.

Il primo è quello fossile, ossia dove non sono presenti corsi d’acqua o falde quindi in questa zona i fenomeni erosivi e corrosivi dell’acqua non sono più attivi. Ovviamente impressa nella roccia può rimanere traccia di questi fenomeni o possono essere stati camuffati da crolli o dalla formazione di nuove concrezioni. nelle parti fossili diventa prevalente l’azione costruttiva evidenziata dalla presenza di concrezioni. per concrezione intendiamo ogni formazione rocciosa prodotta dalla cristallizzazione dei sali minerali presenti nell’acqua che formano caratteristici speleotemi (stalattiti, stalagmiti, colonne etc…); le condizioni che favoriscono la cristallizzazione sono: assenza di correnti nel fluido idrico, costanza della temperatura, scambi gassosi con l’atmosfera.

Il secondo ramo è quello attivo, in quanto è presente l’azione delle acque del Rio Varri, il quale si forma dalle acque piovane. QUESTO FIUME Nasce a Tagliacozzo (AQ), percorre tutta la valle fino ad arrivare nella grotta dove dopo una cascata di circa 20 m precipita nell’inghiottitoio, defluisce lungo il ramo attivo della grotta, percorribile solo dagli speleologi, fino ad arrivare a Civitella dove riemerge e va a confluire nel fiume Salto, che a sua volta va a essere l’immissario principale dell’omonimo lago artificiale.

IL PERCORSO SPELEO-ESPERENZIALE

Zip-line di 40 m+ Percorso Speleo torrentistico
Esplorando uno dei complessi carsici più grandi d’Italia vivi un’avventura straordinaria nel cuore della grotta.
Un’esperienza unica che combina adrenalina, bellezza naturale e un tocco di storia.
Perfetta per avventurieri di ogni livello, questa attività ti farà scoprire il mondo della speleologia verticale in un ambiente suggestivo e affascinante.
Cosa ti aspetta:
Vestizione: Ti forniremo muta, imbrago, casco e lampade frontali per garantirti sicurezza e comfort durante l’attività.
Briefing tecnico con la guida: Impara le tecniche basilari per scendere su corda e muoversi in sicurezza
Discesa in Teleferica: Parti con un’emozionante zip-line di 40 metri, che ti porterà all’interno del maestoso portale d’ingresso.
Esplorazione Sotterranea: Segui il corso del fiume sotterraneo attraverso ambienti ipogei ampi e suggestivi.
Passaggi su Corda: Affronta divertenti passaggi tecnici sotto la guida esperta del nostro maestro di speleo torrentismo.
Lago dei Girini: Ammira il misterioso Lago dei Girini, dove l’acqua sifona e scompare nella roccia.

INFO:

DURATA: 3,30 ore ca. (esclusa la visita turistica)
LUOGO APPUNTAMENTO: Grotte di, 02024 Val De Varri RI
ORARIO: 9.30 am ( N.B. per motivi organizzativi l’orario potrebbe subire leggere modifiche)
MATERIALE TECNICO: completamente fornito dagli organizzatori.
COSA PORTARE: costume, maglia a maniche lunghe, asciugamano, scarpe da ginnastica da bagnare , abiti e scarpe di ricambio, ½ litro d’acqua, snack energetico.
ETA’ MINIMA: dai 15 anni in su; minori accompagnati dai genitori.
COSTO: 60 euro


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I laghi di Cornino e Di Rascino

La primavera inoltrata è la stagione migliore per visitare i Laghetti di Cornino e di Rascino.
Il Laghetto di Cornino e il Lago di Rascino sono due meravigliosi specchi d’acqua remoti e quasi sconosciuti, che si trovano molto vicini ma a quote diverse.

Il Lago di Cornino, circondato da un lato da una pineta di rimboschimento, sorge sull’omonimo piano a quota 1261 metri. Questo specchio d’acqua è secondo come quota solo al più noto Lago della Duchessa e sulle sue rive, dalla tarda primavera fino all’autunno, s’incontrano mandrie di mucche e di cavalli al pascolo. Nel maggio 2020 è stato avvistato un orso che attraversava l’altopiano.

Il Lago di Rascino sorge a quota 1141 metri. Ha una forma molto irregolare essendo formato da una zona centrale che si trova ai piedi del Monte Vignole e da numerosi bracci che si diramano nel Piano omonimo.

Nonostante non sia segnato, l’itinerario per visitare queste due splendide oasi non presenta difficoltà per l’orientamento perché si svolge quasi tutto su strada sterrata.

Da Antrodoco (Rieti) si prende la SS17 dell’Appennino Abruzzese e Appulo Sannitica, direzione L’Aquila. Giunti all’incrocio con una piccola strada proveniente da destra, al chilometro 11,700 circa, la si imbocca e si parcheggia subito dopo

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L'itinerario in salita


A piedi si segue la strada, per pochi metri asfaltata e poi sterrata, che scende leggermente in direzione sud ovest.
Attraversata la linea ferroviaria, Terni-Rieti-L’Aquila, si giunge a una biforcazione dove si prosegue a sinistra.
Si cammina in parallelo alla strada ferrata che si tiene sulla sinistra e, dopo 200 metri dal passaggio a livello, al successivo bivio, si trascura la poderale che prosegue dritta costeggiando la ferrovia e si continua a destra sempre in discesa fino all’inizio del bosco e all’ultimo appezzamento di terra arato, dove a destra si nota il Casale Tranzi (934 m).

Da questo momento in poi non c’è più nessun problema d’orientamento e si segue sempre, in salita e nel bosco, la larga ed evidente sterrata. Si seguono 5 tornanti e lunghe diagonali attraversando le località Campetelli, Pianate di Fabriccio e Coppo.

Dopo un’ultima larga curva in senso orario si attraversa, tra radure e macchia, la Costa Pianezza e si giunge sulla sella (1352 m, 2 ore) che separa il Monte Torrecane, a nord ovest, dal Monte Vignole, a sud est: qui la sterrata termina.

Raggiungendo il Laghetto di Cornino.

In basso si nota un piccolo pianoro con l’inconfondibile sagoma del Laghetto di Cornino, delimitato da un lato da una pineta di rimboschimento. Dalla fine della sterrata si segue un sentiero verso sud molto evidente; questo, a mezza costa, conduce presso lo specchio d’acqua (1261 m).

In breve dal laghetto, seguendo le tracce di animali e di jeep che si dirigono verso sud ovest e superano una specie di largo imbuto erboso, si può ammirare tutto l’enorme Piano di Cornino che finora era rimasto nascosto alla vista.

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Ritornati al laghetto si attraversa tutto il piccolo pianoro in direzione nord est seguendo una traccia di fuoristrada.

Dopo un tornante si sale in direzione sud fino ad intercettare in località Ollanette la sterrata (1309 m, 0.15 ore) che si percorrerà al ritorno.

Si svolta verso destra e dopo 800 metri si giunge a un secondo incrocio (1306 m, 0.15 ore), dove si gode di un’ottima vista sul laghetto e sul grande altopiano delimitato ad ovest dalla dorsale boscosa del Monte Nuria e del Colle della Fungara.

Raggiungendo il Lago di Rascino..

Lasciata a destra la sterrata che scende sul pianoro, si prosegue a sinistra in discesa nel bosco seguendo sempre la strada principale nella stessa direzione. All’uscita dalla macchia (località Coppeiello), si inizia a vedere in basso a sinistra il Lago di Rascino e il suo grande piano.

Caratteristiche le costruzioni utilizzate dalla primavera all’autunno dai contadini e dai pastori.

Poco prima del pianoro si trascura una sterrata a destra (1158 m) e poche decine di metri più avanti si raggiunge un secondo incrocio (1155 m) dove si svolta a sinistra. Giunti sul pianoro, all’incrocio di quota 1145 metri, si prende a destra, si passa accanto a un grosso casale che si trova sulla sinistra e si giunge presso l’ottima Fonte Uscerto (1145 m, 1 ora).

Da qui si può seguire un largo periplo del Lago di Rascino in senso antiorario su prato e tracce (1 ora per la variante).

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Il ritorno


Si torna indietro fino al bivio in località Ollanette (1309 m, 1.30 ore), si tralascia a sinistra la sterrata percorsa all’andata e si continua dritti in direzione nord est. Si attraversa a mezza costa tutto il versante sud del Monte Vignole e, giunti a quota 1360 metri, si apprezza una vista stupenda sul Lago di Rascino e sulla sua piana.

Passata la Forcella di Rascino (1345 m) s’inizia a scendere tra radure e bosco e dopo due tornanti si entra nella boscosa Valle di Cappelletto che si segue verso est fino al suo termine.

A quota 1200 metri circa la sterrata si biforca, la via di destra percorre il fondo erboso della valle e l’altra rimane sul costone boscoso sinistro orografico. Si può seguire indifferentemente uno dei due percorsi in quanto a quota 1150 metri si riuniscono.

Usciti dalla macchia si passa tra alcuni terreni coltivati, si raggiunge la ferrovia e si cammina paralleli a questa per qualche centinaio di metri, la si attraversa grazie a un passaggio a livello e si incrocia la SS 17 dell’Appennino Abruzzese poco prima del chilometro 14 (984 m).

Si sbuca nel paese di Sella di Corno, frazione del comune di Scoppito in provincia dell’Aquila, si prende a sinistra e, se si ha tempo, si visita il paese, altrimenti si segue la statale, con un po’ di attenzione al traffico, e dopo circa 1,5 chilometri si chiude il giro tornando all’auto (1.45 ore).

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Il lago del salto

Il lago del Salto (anche detto lago di Borgo San Pietro[2]) è il più grande lago artificiale del Lazio, situato in provincia di Rieti, creato nel 1940 dallo sbarramento del fiume Salto con la diga del Salto e la conseguente sommersione dell'omonima profonda Valle nel Cicolano. Le sue acque sono condivise con quelle del vicino bacino idroelettrico del lago del Turano mediante un canale artificiale lungo circa 9 km sotto la giogaia del Monte Navegna (1.508 m s.l.m.), che insieme alimentano la centrale idroelettrica di Cotilia, costruita nel 1942 a servizio delle acciaierie di Terni.
Il lago di conformazione molto allungata, all'apparenza come un enorme fiume o fiordo, e dall'importante perimetro per via anche della linea costiera molto frastagliata, segue fedelmente la stretta conformazione dell'omonima Valle del Salto ed è compreso prevalentemente nel comune di Petrella Salto, ma parte delle sue acque ricadono anche entro i confini dei comuni di PescorocchianoFiamignanoVarco Sabino e Marcetelli.

Per la sua realizzazione sono stati cancellati e ricostruiti sulle sponde i centri abitati di Borgo San Pietro, Teglieto e Fiumata, frazioni di Petrella Salto, e Sant'Ippolito, frazione di Fiamignano. Di questi si ricorda il primo come marginale esempio di architettura razionalistica italiana in una provincia durante il Fascismo segnata prevalentemente da interventi rurali e forestali.

Una grossa lapide incisa nella roccia presso la diga del Salto, situata nel bordo nord-occidentale del lago, ricorda le vittime per la costruzione del possente sbarramento cementizio alto oltre 90 m, all'epoca della sua costruzione la diga più alta d'Italia.[senza fonte] Tutta la valle del Salto in corrispondenza del lago è coperta da fitti boschi lungo le pendici montuose dei monti che diradano bruscamente sul lago.

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Clima - fauna - accessibilità


Clima

La diga del Salto e sullo sfondo Poggio Vittiano, frazione di Varco Sabino
Il clima della zona bassa del lago è quello tipico delle zone di collina ovvero con inverni non particolarmente freddi e umidi grazie anche all'azione mitigatrice del lago, abbastanza profondo; le zone montane prospicienti il lago hanno un clima più rigido con inverni più freddi, ma comunque mitigati dalla presenza del lago stesso. Le estati sono calde e a tratti afose.

Fauna

La fauna ittica è composta da elementi alloctoni o di ripopolamento: carpacarpa erbivoratincatrotaanguillacavedanicarassigardonbremealborellepersico reale e lucciopersico trotapersico solesiluroscardola. Fra i crostacei sono presenti il gambero turco e il gambero americano.

Accessibilità

Gli accessi stradali primari sono attraverso la Strada statale 578 Salto Cicolana sia provenendo da Rieti sia dalla A24 "Roma-Teramo" attraverso l'uscita "Valle del Salto". Accessi stradali secondari montani provengono dal territorio abruzzese (Tornimparte), dalla bassa Sabina (Lago del Turano), dal carseolano (Pietrasecca-Tufo) e dall'abitato di Torano-Grotti. Avrebbe dovuto servire la zona anche la ferrovia Rieti-Avezzano, più volte progettata prima della creazione del lago, ma mai realizzata.

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Turismo


Presso i paesi di Fiumata e di Borgo San Pietro (entrambi lungo le sponde settentrionali) è possibile accedere alla costa attraverso spiagge attrezzate e balneabili che permettono anche il noleggio di attrezzature turistiche quali ombrelloni, sdraiopedalò e canoe.
Negli ultimi anni il bacino è diventato un importante punto di riferimento per gli amanti del wakeboard. Alcune prestigiose gare nazionali[3] e internazionali, tra cui i campionati Europei,[4] si disputano proprio nel Lago del Salto.

Meta di turismo estivo nonché di pesca, la Strada statale 578 e un sistema viario secondario ne percorrono tutto il perimetro rendendo facilmente accessibile buona parte delle sue acque e le numerose insenature vallive che lo caratterizzano. Le colline circostanti prevalentemente boscose, le temperature fortemente mitigate dalla presenza del lago e i suddetti collegamenti viari lo rendono meta frequente di gitanti non solo dal Lazio.

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